martedì 2 giugno 2015

Ode al corbezzolo - Poesia di Giovanni Pascoli



























Nota alla lettura (di Rocco Gio Fodale) 


In questa poesia Giovanni Pascoli celebra l'Italia e la sua bandiera. In maniera simbolica propone un parallelismo tra il cespuglio di corbezzolo ed il tricolore, esprimendo il proprio sentimento nazionalistico, molto forte al suo tempo. Egli si rifà all'XI canto dell'Eneide di Virgilio (versi 64-65), in cui è descritto il feretro di Pallante (figlio di Evandro, alleato di Enea, contro Turno, giovane e bellissimo re dei Rutuli) tessuto di rami di corbezzolo. Enea è predestinato ad essere progenitore di Roma e degli Italici. Così per Pascoli, grande classicista, il giovane Pallante diventa il primo eroe caduto per la Patria.
Le foglie del corbezzolo, nel periodo natalizio, sono verdi, i suoi fiori sono bianchi e le sue bacche rosse, gli stessi colori della bandiera italiana. Quindi trasfigura l'eroe Pallante in un tricolore come “ primo eroe caduto / delle tre Rome”. Così Pallante è considerato come primo eroe morto per la causa nazionale, ed il corbezzolo prefigurato come tricolore. Oggi questo arbusto è considerato “pianta nazionale” e nei giardini del Quirinale, accanto a lecci, gruppi di palme e siepi sempreverdi, è piantumato un umile cespuglio di corbezzolo.
“[...] i bianchi fiori metti quando rosse / hai già le bacche, e ricominci eterno, / quasi per gli altri ma per te non fosse / l’ozio del verno / o verde albero italico [...]”.





ODE AL CORBEZZOLO 


O tu che, quando a un alito del cielo
i pruni e i bronchi aprono il boccio tutti,
tu no, già porti, dalla neve e il gelo
salvi, i tuoi frutti;

e ti dà gioia e ti dà forza al volo
verso la vita ciò che altrui le toglie,
ché metti i fiori quando ogni altro al suolo
getta le foglie;

i bianchi fiori metti quando rosse
hai già le bacche, e ricominci eterno,
quasi per gli altri ma per te non fosse
l’ozio del verno;

o verde albero italico, il tuo maggio
è nella bruma: s’anche tutto muora,
tu il giovanile gonfalon selvaggio
spieghi alla bora:

il gonfalone che dal lido estrusco
inalberavi e per i monti enotri,
sui sacri fonti, onde gemea tra il musco
l’acqua negli otri,

mentre sul poggio i vecchi deiformi
stavano, immersi nel silenzio e torvi
guardando in cielo roteare stormi
neri di corvi.

Pendeva un grave gracidar su capi
d’auguri assòrti, e presso l’acque intenta
era al sussurro musico dell’api
qualche Carmenta;

ché allor chiamavi come ancor richiami,
alle tue rosse fragole ed ai bianchi
tuoi fiori, i corvi, a un tempo, e l’api: sciami,
àlbatro, e branchi.

Gente raminga sorveniva, e guerra
era con loro; si sentian mugliare
corni di truce bufalo da terra,
conche dal mare

concave, piene d’iride e del vento
della fortuna. Al lido navi nere
volgean gli aplustri con d’opaco argento
grandi Chimere;

che avean portato al sacro fiume ignoto
un errabondo popolo nettunio
dalla città vanita su nel vuoto
d’un plenilunio.

Le donne, nuove a quei silvestri luoghi,
ora sciogliean le lunghe chiome e il pianto
spesso intonato intorno ad alti roghi
lungo lo Xanto;

ed i lor maschi voi mietean di spada,
àlbatri verdi, e rami e ceree polle
tesseano a farne un fresco di rugiada
feretro molle,

su cui deporre un eroe morto, un fiore,
tra i fiori; e mille, eletti nelle squadre,
lo radduceano ad un buon re pastore,
vecchio, suo padre.

Ed ecco, ai colli giunsero sul grande
Tevere, e il loro calpestìo vicino
fugò cignali che frangean le ghiande
su l’Aventino;

ed ululò dal Pallantèo la coppia
dei fidi cani, a piè della capanna
regia, coperta il culmine di stoppia
bruna e di canna;

e il regio armento sparso tra i cespugli
d’erbe palustri col suo fulvo toro
subitamente risalia con mugli
lunghi dal Foro;

e là, sul monte cui temean le genti
per lampi e voci e per auguste larve,
alta una nera, ad esplorar gli eventi,
aquila apparve.

Volgean la testa al feretro le vacche,
verde, che al morto su la fronte i fiocchi
ponea dei fiori candidi, e le bacche
rosse su gli occhi.

Il tricolore!… E il vecchio Fauno irsuto
del Palatino lo chiamava a nome,
alto piangendo, il primo eroe caduto
delle tre Rome.



di Giovanni Pascoli 










.

foto tratta da: http://roma.repubblica.it/cronaca/2013/11/03/news/spettacolo_delle_frecce_tricolori_roma_festeggia_il_4_novembre-70111674/


GLI ARTICOLI

sabato 30 maggio 2015

La poesia del mese - Dulcedo - di Nunzia Binetti - Giugno 2015






Dulcedo 


Nell’anima ho vacanza.
E’ prisma il mare
in fantasie di correnti già si inalba.
Corsia preferenziale della mente
il volo libero
-in piste di atterraggio più non torno-
Allattami tu, cielo
d’azzurro e di vertigini
ché ho una mano sulla fronte
a contenere i conati folli della norma
e l’altra sui papaveri, nascenza
che l’orto ha imprigionato.
Ho mancamenti eccelsi
dulcedo arranca.
- Mi sorreggi?-
L’ultima pace forse è l’elegia
taciuta nel tuo fondo.


di Nunzia Binetti  





immagine tratta da http://www.superedo.it/sfondi/sfondi/Arte/Frattali/frattali_9.jpg





mercoledì 27 maggio 2015

La poesia del mese - Piccoli morsi dell'amore cannibale - di Paolo Polvani - Maggio 2015


















PICCOLI MORSI DELL’AMORE CANNIBALE


Vieni, diceva con la voce intinta
nel più profondo miele, vieni che ti
sbrino il cuore, ti sciolgo
questi ghiacci eterni, ti lancio
l’autostima in orbita, in eccesso
di erezione l’ego, ti titillo
la vanità. E intanto pregustava
il sangue come un trofeo di caccia,
uno stendardo, e affilava la lama.
Perché l’amore non è faccenda
per gente sana, t’insinua l’illusione
della felicità da bere a sorsi
ma poi ti atterra, ti divora a morsi.


di Paolo Polvani 





.



Nota di lettura (di Francesca de Santis) 

Davvero insolita questa lirica d’amore di Paolo, fuori dai canoni di filoni e generi letterari che celebrano il più declamato dei sentimenti umani e il più trito. Una sorta di “amore criminale” descritto nel suo cruento evolversi; narrato non come passione ma come insania, non quale dono ma furto, non fusione di anime e possesso di corpi ma prepotente fagocitare che assimila l’altro in me e a me.
Vieni – vieni è la voce suadente che promette il dolo, e il miele sarà ben presto fiele. Sbrinerà, scioglierà i tuoi ghiacci ma affogherai nell’acqua. Avrai l’autostima in orbita ma ti disintegrerai nel nulla. Raddrizzerà il tuo Ego, ma poi sarai nessuno. E come un solletico sarà dolore la tua vanità.

Questo sembra dire il Poeta attraverso una serie di metafore, per poi varcare il campo semantico della caccia. E senti l’odore ferruginoso del sangue e del coltello mentre la coppia di termini trofeo e stendardo inneggiano al trionfo del predatore. E’ la “patologia” che ruba la scena al “pathos”; è l’umana sete di felicità che ci si illude di poter placare amando; e non ti accorgi che t’ha fatto volare in alto e sei precipitato, ti ha promesso nutrimento e s’è nutrito di te, selvaggiamente ti ha divorato a piccoli morsi.

Geniale l’utilizzo dei termini titillare ed erezione in un contesto lessicale e in un campo semantico diverso da quello cui di norma appartengono, il che contribuisce a ricordare al lettore che l’Eros non manca in questi versi; si è solo consapevolmente trasformato in quello che in fondo è l’Amore: possesso, prepotenza, violenza, intrusione, invasione, strappo, e a volte persino eutanasia di un’esistenza. Un gioco “d’azzardo”, un gioco senza regole o, se volete, il più strano gioco di ruoli, in cui carnefice e vittima si confondono, si inseguono, si incontrano e si scontrano, si perdono e si ritrovano, e così all’infinito.

Solo tredici versi, in cui Polvani fa sfoggio della sua perizia compositiva, del suo personalissimo stile, del suo genio poetico. Da notare, in quanto a forma, il costante ricorso all’inarcatura (più o meno forte) fino al dodicesimo verso: non c’è enjambement fra gli ultimi due versi, forse a voler placare il rincorrersi dei concetti, che si avverte in tutta la lirica, optando per una chiusa statica che renda bene l’irreversibilità della situazione. E, tra l’altro, sono gli unici versi a rimare, in una rima... baciata. 



dipinto: Il bacio (particolare) - Gustav Klimt (1907-08 - Österreichische Galerie Belvedere di Vienna)  

.

sabato 23 maggio 2015

Per Giovanni Falcone - di Alda Merini























La mafia sbanda,
la mafia scolora
la mafia scommette,
la mafia giura
che l'esistenza non esiste,
che la cultura non c'è,
che l'uomo non è amico dell'uomo.          
La mafia è il cavallo nero
dell'apocalisse che porta in sella
un relitto mortale,
la mafia accusa i suoi morti.
La mafia li commemora
con ciclopici funerali:
così è stato per te, Giovanni,
trasportato a braccia da quelli
che ti avevano ucciso.


di Alda Merini 
da Ipotenusa d'amore, La Vita Felice, 1994  






sabato 4 aprile 2015

La poesia del mese - La domenica delle palme - di Marino Moretti - Marzo 2015



Chinar la testa che vale?
E che val nova fermezza?
Io sento in me la stanchezza
del giorno domenicale,

mentre la madre mia buona
entra con passo furtivo
nella mia stanza e mi dona
un ramoscello d'ulivo...

E se'n va. Tutto quello
ch'ella vuol dirmi lo dice
a questo suo ramoscello
che adornerà una cornice:

adornerà la cornice
dorata a capo del letto
l'ulivo ch'è benedetto,
l'ulivo che benedice;

porterà pace e abbondanza
nelle casette più sole,
rallegrerà un po' la stanza
dell'infermo, senza sole,

ricorderà poi con tanta
fede l'ingresso solenne
di Cristo a Gerusalemme
nella domenica santa!...

Ulivo, e a me che dirai?
Le stesse cose anche tu?
se una parola: giammai,
se due parole: mai più?

Nulla tu doni al mio cuore
che lo consoli un istante,
ed il mio sguardo tremante
non vede in te che un colore:

il color triste di tutto
il mondo che non à sole
e piange tacito e vuole
vestirsi di mezzo lutto;

il colore della noia
e dei fiori di bugia,
il colore della mia
giovinezza senza gioia;

il colore del passato
che ritorna ben vestito,
il color dell'infinito
e di ciò che non è stato;

il color triste dell'ore
così lente a venir giù
dai lor numeri, il colore
che non è colore più. 


di Marino Moretti 





mercoledì 1 aprile 2015

La poesia del mese - Promemoria - di Gianni Rodari - Aprile 2015






Promemoria 


Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola,
a mezzogiorno.

Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per non sentire.

Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno né di notte,
né per mare né per terra:
per esempio, la guerra.


di Gianni Rodari 


dipinto di Bob Marongiu 
in www.bobart.it 


.



sabato 28 marzo 2015

Le poesie di Tomas Tranströmer

Poeta e psicologo svedese. Premio Nobel per la Letteratura (2011) 
1931 - 2015 





Marzo ’79 * 

Stanco di tutto ciò che viene dalle parole, parole non linguaggio,
Mi recai sull’isola innevata.
Non ha parole la natura selvaggia.
Le sue pagine non scritte si estendono in ogni direzione.
Mi imbatto nelle orme di un cerbiatto.
Linguaggio non parole.


* * * 


Stazione *


Un treno è entrato in stazione. È fermo, vagone dopo vagone,
Ma nessuna porta si apre, nessuno scende o sale.
Ci sono veramente delle porte? Là dentro un brulichio
Di uomini rinchiusi che vanno su e giù.
E scrutano dai finestrini immobili.
Fuori lungo il treno cammina un uomo con un martello.
Urta le ruote che debolmente risuonano. Tranne qui.
Qui il rumore aumenta incomprensibilmente: un fulmine,
Il rintocco dell’orologio della cattedrale,
Il rumore della circumnavigazione del globo
Che solleva tutto il treno e le pietre umide dei dintorni.
Tutto canta. Ve lo ricorderete. Andate avanti.


* * * 


Mistero per la strada *


Si posò la luce del giorno sul viso di un uomo addormentato.
Gli giunse un sogno più vivido
Ma non si svegliò.
Si posò l’oscurità sul viso di un uomo in cammino
Tra la gente nei raggi di sole
Forti e impazienti.
D’un tratto si fece buio come per il temporale.
Io ero in una stanza che conteneva tutti gli istanti –
Un museo di farfalle.
Tuttavia il sole era forte come prima.
I suoi pennelli impazienti dipingevano il mondo.


* * * 


Storia fantastica ** 


Ci sono giorni d’inverno senza neve quando il mare s’imparenta
con i tratti montuosi, accucciandosi in grigie vesti di piume,
un breve attimo blu, lunghe ore con onde che invano
come pallide linci cercano appiglio sulla riva ghiaiosa.

In giorni come questo esce il relitto dal mare in cerca dei
suoi armatori, seduti al chiasso delle città, e gli equipaggi
annegati soffiano verso terra, più sottili del fumo di pipa.

(Nel nord vagano le vere linci, con artigli affilati
e occhi sognanti. Nel nord dove il giorno
vive in una caverna giorno e notte.

Dove il solo sopravvissuto può sedere
alla fornace dell’aurora boreale e ascoltare
la musica dei morti assiderati.)


* * * 


La coppia ** 


Spengono la lampada e il suo globo risplende
un istante prima di sciogliersi
come una pastiglia in un bicchiere di tenebre. Poi si sollevano.
Le pareti dell’albergo si gettano nel buio del cielo.

I gesti dell’amore si sono acquietati e loro dormono
ma i pensieri più segreti s’incontrano
come quando s’incontrano due colori e l’uno nell’altro fluiscono
sulla carta bagnata di un dipinto infantile.

È buio e silenzio. Ma la città stanotte
si è avvicinata in fretta. A finestre spente. Le case sono qui.
Vicinissime, stanno serrate in attesa,
una folla di volti inespressivi.


* * * 


Una notte d’inverno ** 


La tempesta poggia la sua bocca alla casa
e soffia per emettere un suono.
Dormo inquieto, mi giro, leggo
il testo della tempesta assopita.

Ma gli occhi del bambino sono spalancati al buio
e il temporale mugola per lui.
Entrambi amano le lampade che dondolano.
Entrambi sono a metà strada dal linguaggio.

La tempesta ha mani infantili e ali.
La carovana si lancia verso la Lapponia.
E la casa avverte la sua costellazione di chiodi
che tiene insieme le pareti.

La notte è immobile sul nostro pavimento
(dove tutti i passi attutiti
riposano come foglie affondate in uno stagno)
ma fuori infuria la notte!

Sul mondo passa una più grave tempesta.
Poggia la sua bocca alla nostra anima
e soffia per emettere un suono – temiamo
che la tempesta soffiando ci svuoti.


* * * 


Meditazione agitata *** 


Un temporale fa girare all’impazzata le ali del mulino
nel buio della notte, macinando nulla. – Ti
tengono sveglio le stesse leggi.
Il ventre dello squalo è la tua fioca lampada.
Soffusi ricordi calano sul fondo del mare
e là si irrigidiscono in statue sconosciute. – Verde
di alghe è la tua gruccia. Chi va
al mare torna impietrito.


* * * 





* in F. Buffoni, Songs of Spring. Quaderno di traduzioni, Marcos y Marcos 1999 
tratto dal blog http://www.leparoleelecose.it/?p=1236 

** in Tomas Tranströmer, Poesia dal silenzio, Crocetti Editore, 2011 
tratto da  https://alessandrocanzian.wordpress.com/2014/01/12/poesia-dal-silenzio-tomas-transtromer/ 

*** tratto da https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/03/03/tomas-transtromer-sette-poesie-la-costruzione-delle-immagini-in-movimento-a-cura-di-giorgio-linguaglossa/ 



sabato 21 marzo 2015

Il Racconto del Mese - Rubrica
























Marzo 2016 - Caporali si nasce - di Antonio de Curtis 


Febbraio 2016 - 


Gennaio 2016 - 

Dicembre 2015 - 

Novembre 2015 - 

Ottobre 2015 - 

Settembre 2015 - 

Agosto 2015 - 

Luglio 2015 - 

Giugno 2015 - 

Maggio 2015 - 

Marzo 2015 - La lupa - di Giovanni Verga 


Febbraio 2015 - 

Gennaio 2015 - 

Dicembre 2014 - 

Novembre 2014 - 

Ottobre 2014 - 

Settembre 2014 - 

Agosto 2014 - 

Luglio 2014 - 

Giugno 2014 -

Maggio 2014 - 

Aprile 2014 -

Marzo 2014 - 

Febbraio 2014 - 

Gennaio 2014 - 

Dicembre 2013 - 

Novembre 2013 - 

Ottobre 2013 - 

Settembre 2013 - 

Agosto 2013 - 

Luglio 2013 - 

Giugno 2013 - 

Maggio 2013 - 

Aprile 2013 - 

Marzo 2013 - 

Febbraio 2013 - 










Il racconto del mese - La Lupa - di Giovanni Verga - Marzo 2015

di Giovanni Verga 
















Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna — e pure non era più giovane — era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano.
Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai — di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all’altare di Santa Agrippina. Per fortuna la Lupa non veniva mai in chiesa, né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. — Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero servo di Dio, aveva persa l’anima per lei.
Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno l’avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole, come ogni altra ragazza del villaggio.
Una volta la Lupa si innamorò di un bel giovane che era tornato da soldato, e mieteva il fieno con lei nelle chiuse del notaro; ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura. Ma lui seguitava a mietere tranquillamente, col naso sui manipoli, e le diceva: — O che avete, gnà Pina? — Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo, la Lupa, affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in quando: — Che volete, gnà Pina? —
Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell’aia, stanchi dalla lunga giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna nera: — Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te!
— Ed io invece voglio vostra figlia, che è zitella — rispose Nanni ridendo.
La Lupa si cacciò le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e se ne andò; né più comparve nell’aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che cavavano l’olio, perché egli lavorava accanto alla sua casa, e lo scricchiolio del torchio non la faceva dormire tutta notte.
— Prendi il sacco delle olive, — disse alla figliuola, — e vieni —.
Nanni spingeva con la pala le olive sotto la macina, e gridava — Ohi! — alla mula perché non si arrestasse. — La vuoi mia figlia Maricchia? — gli domandò la gnà Pina. — Cosa gli date a vostra figlia Maricchia? — rispose Nanni. — Essa ha la roba di suo padre, e dippiù io le do la mia casa; a me mi basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un po’ di pagliericcio. — Se è così se ne può parlare a Natale — disse Nanni. Nanni era tutto unto e sudicio dell’olio e delle olive messe a fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto; ma sua madre l’afferrò pe’ capelli, davanti al focolare, e le disse co’ denti stretti: — Se non lo pigli, ti ammazzo! —
La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita. Non andava più di qua e di là; non si metteva più sull’uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia, quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l’abitino della Madonna per segnarsi. Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana. In quell’ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona, la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell’afa, lontan lontano, verso l’Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull’orizzonte.
— Svegliati! — disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le braccia. — Svegliati, ché ti ho portato il vino per rinfrescarti la gola —.
Nanni spalancò gli occhi imbambolati, tra veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani.
— No! non ne va in volta femmina buona nell’ora fra vespero e nona! — singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro l’erba secca del fossato, in fondo in fondo, colle unghie nei capelli. — Andatevene! andatevene! non ci venite più nell’aia! —
Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe, guardando fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone.
Ma nell’aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le disse nulla. Quando tardava a venire anzi, nell’ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in cima alla viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte — e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva ogni volta: — Andatevene! andatevene! Non ci tornate più nell’aia! —
Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch’essa, allorché la vedeva tornare da’ campi pallida e muta ogni volta. — Scellerata! — le diceva. — Mamma scellerata!
— Taci!
— Ladra! ladra!
— Taci!
— Andrò dal brigadiere, andrò!
— Vacci!
E ci andò davvero, coi figli in collo, senza temere di nulla, e senza versare una lagrima, come una pazza, perché adesso l’amava anche lei quel marito che le avevano dato per forza, unto e sudicio delle olive messe a fermentare.
Il brigadiere fece chiamare Nanni; lo minacciò sin della galera e della forca. Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negò nulla, non tentò di scolparsi. — È la tentazione! — diceva; — è la tentazione dell’inferno! — Si buttò ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera.
— Per carità, signor brigadiere, levatemi da questo inferno! Fatemi ammazzare, mandatemi in prigione! non me la lasciate veder più, mai! mai!
— No! — rispose invece la Lupa al brigadiere — Io mi son riserbato un cantuccio della cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa è mia; non voglio andarmene.
Poco dopo, Nanni s’ebbe nel petto un calcio dal mulo, e fu per morire; ma il parroco ricusò di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa se ne andò, e suo genero allora si potè preparare ad andarsene anche lui da buon cristiano; si confessò e comunicò con tali segni di pentimento e di contrizione che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del moribondo. E meglio sarebbe stato per lui che fosse morto in quel giorno, prima che il diavolo tornasse a tentarlo e a ficcarglisi nell’anima e nel corpo quando fu guarito. — Lasciatemi stare! — diceva alla Lupa — Per carità, lasciatemi in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me... —
Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne’ suoi gli facevano perdere l’anima ed il corpo. Non sapeva più che fare per svincolarsi dall’incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio, e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza — e poi, come la Lupa tornava a tentarlo:
— Sentite! — le disse, — non ci venite più nell’aia, perché se tornate a cercarmi, com’è vero Iddio, vi ammazzo!
— Ammazzami, — rispose la Lupa, — ché non me ne importa; ma senza di te non voglio starci —.
Ei come la scorse da lontano, in mezzo a’ seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall’olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. — Ah! malanno all’anima vostra! — balbettò Nanni. 








la foto è tratta da: http://blog.libero.it/PICCOLOINFINITO/11882448.html

Il testo della Novella è tratto da 
http://www.classicitaliani.it/verga/novelle/verga_03_vita_dei_campi.htm 

giovedì 19 marzo 2015

Le VideoPoesie



























in https://knittednotes.files.wordpress.com/2012/04/duck-soup-movie.jpg?w=840&h=543



* in http://milano.mentelocale.it/47711-milano-civica-scuola-cinema-nuova-sede-ex-manifattura-tabacchi/


I LIBRI


     






GLI ILLUSTRATORI

GLI SCRITTORI

foto di Stefano Viola* 
















*foto tratta da http://www.hwupgrade.it/forum/showthread.php?t=2115982 








I POETI

mercoledì 18 marzo 2015




"Il primo fiore di primavera è sempre impaziente, sboccia che c'è ancora la neve..." (Robert Goren) 







.

mercoledì 11 marzo 2015

Le poesie di Evgenij Aleksandrovitch Evtuschenko




























"Le ragazze di Parigi, che il diavolo se le porti! 
Ed il diavolo sarebbe lieto di portarsele con sé! 
Sono ... Come gli spari d'un fuoco d'artificio. 
Quando scoppia la guerra nelle vie" 





Ti ho amato 


Ti ho amato al suono di Piazzolla,
e con lo scricchiolìo di lenzuola inamidate,
e sotto il fruscio dei girasoli,
al suono di Armstrong
e al suono di Rachmaninov.
Al risuonare di Glenn Gould.
di Saša Izbiter
di João Gilberto
e sotto lo sgocciolio di statue bagnate
e di colori non asciutti del cavalletto.
E in un pagliaio
al sorgere del sole con i galli,
dove, destatomi,
io ti volevo,
e nel doppio respiro
di due corpi come uno solo.


* * * 


Ribes Nero


Occhi neri di ribes nero
come dense gocce della notte
guardano e inconsapevoli domandano
o di qualcuno o di qualcosa.

Caverà lesto il tordo saltellante
gli occhi neri di ribes nero,
ma i gorghi del vortice conservano memoria
di qualcuno o di qualcosa.

Non penetrate nella memoria delle amate.
Temete quei vortici abissali, perfino
la vecchia tua blusa, non di te si ricorda, ma
di qualcuno o di qualcosa.

E dopo morto vorrei onestamente sempre vivere
in te, come qualcuno no, come qualcosa,
che ti rammenti, linea d'orizzonte,
solo qualcosa, solo qualcosa.


* * * 


Nel parco 


Per i labirinti del parco
tu e io andavamo.
Tutto in quel mezzogiorno, ci rallegrava:
l'arco che si curvava sul padiglione,
le attrazioni, la calca agli sportelli della biglietteria,
il luccicante lindore dei praticelli rasati e
presso il tirassegno due filari d'acacie.
Sulla facciata
di uno stand presso un laghetto
i cartelloni del film Constantin Zaslonov,
il vestitino di una ragazzetta tutto svolazzi e falpalà;
volti balenanti tra la ressa, il frullare di uccelli
che prendono il volo,
gelati Eskimò in involucri
argentati su bancarelle blu...
Tu e io andavamo sempre più felici
sorridendo ai bambini,
agli uccelli
ai fiori alle erbe,
quando improvvisa
(venuta da chissà dove!)
la pioggia
si rovesciò a scroscio sul nostro capo.
Con passo schioccante, sollevando alti spruzzi
attraverso i prati,
respirando ozono,
la pioggia camminava,
e noi correvamo per non farci raggiungere.
Con un'allegra caccia all'uomo, l'acqua
galoppò dietro a noi,
urtando contro i rami,
ora raggiungendoci,
ora di nuovo perdendoci...
E in un chioschetto dal vento avvolto
con una rete diafana di fili,
dove le gocce saltavano
in una danza frenetica,
in mezzo a trasparenti lustrini
di cascatelle d'acqua,
noi alzammo gli occhi,
e l'inchiostro dei nostri sguardi
fu
una dichiarazione d'amore.
Poi l'acquazzone cessò
Come era venuto, tutt'a un tratto...
il rombo del tuono morì in lontananza
con le sue ultime salve...
Il profumo dei lillà dischiusi
si confondeva con l'odore della terra.
Scintillava la sabbia.

Prima di dar inizio al canto
scrollavano le piume i capirossi.
Sorridendo camminavano i passanti.
Nei tuoi occhi
sotto la convessità d'ogni pupilla
appena appena facendo vibrare
le sensibili ciglia,
liquidamente scorrevano fiori
navigavano nuvole.
E qual che sia il futuro che il mondo m'apparecchia
io gli perdono
e anzi l'amerò, sempre,
in grazia se non altro di questo:
che un giorno
l'ho guardato riflesso
nella felicità dei tuoi occhi.


* * * 


Sempre si troverà una donna


Sempre si troverà una donna,
che, fredda e lieve,
compatendo e un poco amando,
ti plachi come un fratello.
Sempre si troverà la spalla di una donna
dove, abbandonata la testa scapestrata,
tu possa respirare con ardore
e a cui possa affidare il tuo ribelle sonno.
Sempre si troveranno gli occhi di una donna
che, smorzando il tuo dolore,
in parte almeno, se non proprio tutto,
vedano la tua sofferenza.
Ma c’è una mano
che ha particolare dolcezza
quando la fronte tormentata sfiora,
come l’eternità e il destino.
Ma c’è una spalla
che, un mistero il perché,
in eterno ti è data, non per una notte sola,
e questo tu da tanto l’hai capito.
Ma ci sono occhi
che appaiono sempre tristi,
e sono gli occhi del tuo amore e della tua coscienza,
fino ai tuoi ultimi giorni.
Ma tu vivi malgrado te stesso,
e quella mano, quella spalla,
quegli occhi tristi non ti bastano…
Quante volte in vita li hai traditi!
Ma eccolo, arriva, il castigo.
<<Traditore!>> – ti schiaffeggia la pioggia.
<<Traditore!>> – i rami ti sferzano il viso.
<<Traditore!>> – rimbalza l’eco nel bosco.
Ti rattristi, ti agiti, ti tormenti.
Non saprai perdonare tutto questo a te stesso.
E solo quella mano diafana perdona,
anche se grave l’offesa,
e solo quella spalla stanca
perdona adesso e perdonerà ancora,
e solo quegli occhi tristi
perdonano quello che non si può perdonare.


* * * 


Scordandoci il suo senso primordiale, 
abbiam rimosso la donna, abbassandola 
all'uguaglianza. 


Le betulle nane: Gratitudine 


* * *



L'immagine di Gian Marco Crovetto e Gianni Ansaldi tratta da gcrovetto.com/PopExpress/evgenijaleksandrovitchevtuschenko.html

Nel Parco e Ribes nero sono tratti da  poesieracconti.it/poesie/a/evgenij-evtusenko 

Ti ho amatoSempre si troverà una donna sono tratti da cantierepoesia.wordpress.com/category/x-sogni-dautore-x/evgenij-aleksandrovic-evtushenko/ 


lunedì 9 marzo 2015

L'OSPITE DEL MESE - Séamus Heaney - Marzo 2015



























disegno di Barry Mullan 



Il Fusto di pioggia   



Capovolgi il fusto e quello che succede

è una musica che non avresti sperato mai
d'udire. Lungo il secco stelo di cactus scorrono

acquazzoni, cascate, rovesci, risacche.

Ti lasci attraversare come un condotto
d'acqua, poi lo scuoti di nuovo leggermente

ed ecco un diminuendo che corre per le sue scale

come una grondaia gemente. Di seguito,
uno spruzzo di stille da foglie irrorate,

sottile umidità d' erba e margherite;

poi mille luccichii come soffi di brezza.
Capovolgi ancora il bastone. Quel che succede

non è sminuito dall'essere accaduto una volta,

due, dieci, mille volte prima.
Che importa se tutta la musica che traspare

è un cadere di pietriccio e semi secchi lungo un fusto

di cactus! Sei come l'uomo ricco accolto in paradiso
attraverso il timpano di una goccia di pioggia. E adesso
riascolta.




The Rain Stick

Upend the rain stick and what happens next

Is a music that you never would have known
To listen for. In a cactus stalk

Downpour, sluice-rush, spillage and backwash

Come flowing through. You stand there like a pipe
Being played by water, you shake it again lightly

And diminuendo runs through all its scales

Like a gutter stopping trickling. And now here comes
A sprinkle of drops out of the freshened leaves,

Then subtle little wets off grass and daisies;

Then glitter-drizzle, almost-breaths of air.
Upend the stick again. What happens next

Is undiminished for having happened once,

Twice, ten, a thousand times before.
Who cares if all the music that transpires

Is the fall of grit or dry seeds through a cactus?

You are like a rich man entering heaven
Through the ear of a raindrop. Listen now again.



* * * 



Scavando 


Tra l’indice e il pollice riposa
La mia penna tozza e comoda come una pistola.
Sotto la finestra il suono netto e stridulo
Della vanga che affonda nella terra ghiaiosa:
Mio padre, che scava. E guardo giù
Finché la schiena gli si abbassa fra le aiuole
E torna su come vent’anni di prima
Piegandosi a tempo tra le piante di patate
Dove stava scavando.
Con lo stivale rozzo annidato sul vangile
Spostava l’asta fermamente contro
La parte interna del ginocchio. Sradicava le piante
Affondando la lama lucida e noi raccoglievamo
Le nuove patate, ci piaceva
Sentirle fredde e dure fra le mani.
Per Dio, il vecchio sapeva maneggiare la vanga.
Proprio come il suo vecchio.
Tagliava più torba mio nonno in un giorno
Di ogni altro uomo nella torbiera di Toner.
Una volta scesi a portargli il latte
In una bottiglia col tappo di carta. Si alzò
Lo bevve, e si rimise subito al lavoro
Incidendo e tagliando nettamente, sollevando
Zolle sulla spalla, e scendendo sempre più giù
Per trovare quella buona. Scavando.
E mi torna in mente l’odore freddo della terra
Delle patate, lo scalpiccio sulla torba fradicia,
I colpi risoluti della vanga tra le radici vive.
Ma io non ho la vanga per seguire uomini così.
Tra l’indice e il pollice
Ho la penna.
Scaverò con quella. 




Digging 

Between my finger and my thumb
The squat pen rests; snug as a gun.
Under my window, a clean rasping sound
When the spade sinks into gravelly ground:
My father, digging. I look down
Till his straining rump among the flowerbeds
Bends low, comes up twenty years away
Stooping in rhythm through potato drills
Where he was digging.
The coarse boot nestled on the lug, the shaft
Against the inside knee was levered firmly.
He rooted out tall tops, buried the bright edge deep
To scatter new potatoes that we picked,
Loving their cool hardness in our hands.
By God, the old man could handle a spade.
Just like his old man.
My grandfather cut more turf in a day
Than any other man on Toner’s bog.
Once I carried him milk in a bottle
Corked sloppily with paper. He straightened up
To drink it, then fell to right away
Nicking and slicing neatly, heaving sods
Over his shoulder, going down and down
For the good turf. Digging.
The cold smell of potato mould, the squelch and slap
Of soggy peat, the curt cuts of an edge
Through living roots awaken in my head.
But I’ve no spade to follow men like them.
Between my finger and my thumb
The squat pen rests.
I’ll dig with it.



* * * 






giovedì 26 febbraio 2015

La poesia del mese - Febbraio 2015 - Totò - 'A livella






























'A livella 


Ogn'anno, il due novembre, c'é l'usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll'adda fà chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.
Ogn'anno, puntualmente, in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch'io ci vado, e con dei fiori adorno
il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza.

St'anno m'é capitato 'navventura...
dopo di aver compiuto il triste omaggio.
Madonna! si ce penzo, e che paura!
ma po' facette un'anema e curaggio.

'O fatto è chisto, statemi a sentire:
s'avvicinava ll'ora d'à chiusura:
io,tomo tomo,stavo per uscire
buttando un occhio a qualche sepoltura.

"Qui dorme in pace il nobile marchese
signore di Rovigo e di Belluno
ardimentoso eroe di mille imprese
morto l'11 maggio del'31"

'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto...
...sotto 'na croce fatta 'e lampadine;
tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto:
cannele,cannelotte e sei lumine.

Proprio azzeccata 'a tomba 'e stu signore
nce stava 'n 'ata tomba piccerella,
abbandunata,senza manco un fiore;
pe' segno,sulamente 'na crucella.

E ncoppa 'a croce appena se liggeva:
"Esposito Gennaro - netturbino":
guardannola,che ppena me faceva
stu muorto senza manco nu lumino!

Questa è la vita! 'ncapo a me penzavo...
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero maronna s'aspettava
ca pur all'atu munno era pezzente?

Mentre fantasticavo stu penziero,
s'era ggià fatta quase mezanotte,
e i'rimanette 'nchiuso priggiuniero,
muorto 'e paura...nnanze 'e cannelotte.

Tutto a 'nu tratto,che veco 'a luntano?
Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia...
Penzaje:stu fatto a me mme pare strano...
Stongo scetato...dormo,o è fantasia?

Ate che fantasia;era 'o Marchese:
c'o' tubbo,'a caramella e c'o' pastrano;
chill'ato apriesso a isso un brutto arnese;
tutto fetente e cu 'nascopa mmano.

E chillo certamente è don Gennaro...
'omuorto puveriello...'o scupatore.
'Int 'a stu fatto i' nun ce veco chiaro:
so' muorte e se ritirano a chest'ora?

Putevano sta' 'a me quase 'nu palmo,
quanno 'o Marchese se fermaje 'e botto,
s'avota e tomo tomo..calmo calmo,
dicette a don Gennaro:"Giovanotto!

Da Voi vorrei saper,vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir,per mia vergogna,
accanto a me che sono blasonato!

La casta è casta e va,si,rispettata,
ma Voi perdeste il senso e la misura;
la Vostra salma andava,si,inumata;
ma seppellita nella spazzatura!

Ancora oltre sopportar non posso
la Vostra vicinanza puzzolente,
fa d'uopo,quindi,che cerchiate un fosso
tra i vostri pari,tra la vostra gente"

"Signor Marchese,nun è colpa mia,
i'nun v'avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie è stata a ffa' sta fesseria,
i' che putevo fa' si ero muorto?

Si fosse vivo ve farrei cuntento,
pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse
e proprio mo,obbj'...'nd'a stu mumento
mme ne trasesse dinto a n'ata fossa".

"E cosa aspetti,oh turpe malcreato,
che l'ira mia raggiunga l'eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato
avrei già dato piglio alla violenza!"

"Famme vedé..-piglia sta violenza...
'A verità,Marché,mme so' scucciato
'e te senti;e si perdo 'a pacienza,
mme scordo ca so' muorto e so mazzate!...

Ma chi te cride d'essere...nu ddio?
Ccà dinto,'o vvuo capi,ca simmo eguale?...
...Muorto si'tu e muorto so' pur'io;
ognuno comme a 'na'ato é tale e quale".

"Lurido porco!...Come ti permetti
paragonarti a me ch'ebbi natali
illustri,nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?".

"Tu qua' Natale... Pasca e Ppifania!!!
T''o vvuo' mettere 'ncapo...'int'a cervella
che staje malato ancora e' fantasia?...
'A morte 'o ssaje ched''e?...è una livella.

'Nu rre,'nu maggistrato,'nu grand'ommo,
trasenno stu canciello ha fatt'o punto
c'ha perzo tutto,'a vita e pure 'o nomme:
tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò,stamme a ssenti...nun fa''o restivo,
suppuorteme vicino-che te 'mporta?
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"


* * *  


La livella 


Ogni anno, il due novembre, c'è l'usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno deve fare questa gentilezza;
ognuno deve avere questo pensiero.

Ogni anno, puntualmente, in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch'io ci vado, e con dei fiori adorno
il loculo marmoreo di zia Vincenza. 

Quest'anno m'è capitata un'avventura ...
dopo aver compiuto il triste omaggio
(Madonna!) se ci penso, che paura!
ma poi mi diedi anima e coraggio. 

Il fatto è questo, statemi a sentire:
si avvicinava l'ora di chiusura:
io, piano piano, stavo per uscire
buttando un occhio a qualche sepoltura. 

"Qui dorme in pace il nobile marchese
signore di Rovigo e di Belluno
ardimentoso eroe di mille imprese
morto l'11 maggio del '31". 

Lo stemma con la corona sopra a tutto ...
...sotto una croce fatta di lampadine;
tre mazzi di rose con una lista di lutto:
candele, candelotte e sei lumini. 

Proprio accanto alla tomba di questo signore
c’era un'altra tomba piccolina,
abbandonata, senza nemmeno un fiore;
per segno, solamente una piccola croce. 

E sopra la croce appena si leggeva:
"Esposito Gennaro - netturbino":
guardandola, che pena mi faceva
questo morto senza neanche un lumino! 

Questa è la vita! tra me e me pensavo...
chi ha avuto tanto e chi non ha niente! 
Questo pover'uomo s'aspettava
che anche all’altro mondo era pezzente? 

Mentre rimuginavo questo pensiero,
s'era già fatta quasi mezzanotte,
e rimasi chiuso prigioniero,
morto di paura... davanti alle candele. 

Tutto a un tratto, che vedo da lontano?
Due ombre avvicinarsi dalla mia parte...
Pensai: questo fatto a me mi pare strano...
Sono sveglio...dormo, o è fantasia? 

Altro che fantasia! Era il Marchese:
con la tuba, la caramella e il pastrano;
quell’altro dietro a lui un brutto arnese;
tutto fetente e con una scopa in mano. 

E quello certamente è don Gennaro...
il morto poverello... il netturbino.
In questo fatto non ci vedo chiaro:
sono morti e si ritirano a quest’ora? 

Potevano starmi quasi a un palmo,
quando il Marchese si fermò di botto,
si gira e piano piano... calmo calmo,
disse a don Gennaro: "Giovanotto! 

Da Voi vorrei saper, vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir, per mia vergogna,
accanto a me che sono blasonato! 

La casta è casta e va, sì, rispettata,
ma Voi perdeste il senso e la misura;
la Vostra salma andava, sì, inumata;
ma seppellita nella spazzatura! 

Ancora oltre sopportar non posso
la Vostra vicinanza puzzolente,
fa d'uopo, quindi, che cerchiate un fosso
tra i vostri pari,tra la vostra gente".

"Signor Marchese, non è colpa mia,
io non vi avrei fatto questo torto;
mia moglie è stata a fare questa fesseria,
io che potevo fare se ero morto? 

Se fossi vivo vi farei contento,
prenderei la cassa con dentro le quattr'ossa 
e proprio adesso, in questo stesso istante
entrerei dentro a un'altra fossa". 

"E cosa aspetti, oh turpe malcreato,
che l'ira mia raggiunga l'eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato
avrei già dato piglio alla violenza!" 

"Fammi vedere! prendi 'sta violenza...
La verità, Marchese, mi sono stufato
di ascoltarti; e se perdo la pazienza,
mi dimentico che son morto e son mazzate!

Ma chi ti credi d'essere...un dio?
Qua dentro, vuoi capirlo che siamo uguali?...
...Morto sei tu , e morto son pure io;
ognuno come a un altro è tale e quale". 

"Lurido porco!... Come ti permetti
paragonarti a me ch'ebbi natali
illustri, nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?". 

"Ma quale Natale, Pasqua e Epifania!!!
Te lo vuoi ficcare in testa... nel cervello
che sei ancora malato di fantasia?...
La morte sai cos’è?... è una livella. 

Un re, un magistrato, un grand’uomo,
passando questo cancello, ha fatto il punto
che ha perso tutto, la vita e pure il nome:
non ti sei fatto ancora questo conto? 

Perciò, stammi a sentire... non fare il restio,
sopportami vicino - che t'importa?
Queste pagliacciate le fanno solo i vivi:

noi siamo seri… apparteniamo alla morte!".









testo napoletano tratto da antoniodecurtis.com
testo italiano tratto da aforismario.it