A Mia madre (1882)
Non sempre il tempo la beltà cancella
O la sfioran le lacrime e gli affanni;
Mia madre ha sessant’anni,
E più la guardo e più mi sembra bella.
Non ha un detto, un sorriso, un guardo, un atto
Che non mi tocchi dolcemente il core;
Ah se fossi pittore
Farei tutta la vita il suo ritratto.
Vorrei ritrarla quando inchina il viso
Perch’io le baci la sua treccia bianca,
O quando inferma e stanca
Nasconde il suo dolor sotto un sorriso.
Ma se fosse un mio prego in cielo accolto
Non chiederei del gran pittor d’Urbino
Il pennello divino
Per coronar di gloria il suo bel volto;
Vorrei poter cangiar vita con vita,
Darle tutto il vigor degli anni miei,
Veder me vecchio, e lei
Dal sacrifizio mio ringiovanita.
* * *
Gli Emigranti (1882)
Cogli occhi spenti, con lo guancie cave,
Pallidi, in atto addolorato e grave,
Sorreggendo le donne affrante e smorte,
Ascendono la nave
Come s’ascende il palco de la morte.
E ognun sul petto trepido si serra
Tutto quel che possiede su la terra.
Altri un misero involto, altri un patito
Bimbo, che gli s’afferra
Al collo, dalle immense acque atterrito.
Salgono in lunga fila, umili e muti,
E sopra i volti appar bruni e sparuti
Umido ancora il desolato affanno
Degli estremi saluti
Dati ai monti che più non rivedranno.
Salgono, e ognuno la pupilla mesta
Sulla ricca e gentil Genova arresta,
Intento in atto di stupor profondo,
Come sopra una festa
Fisserebbe lo sguardo un moribondo.
Ammonticchiati là come giumenti
Sulla gelida prua morsa dai venti,
Migrano a terre inospiti e lontane;
Laceri e macilenti,
Varcano i mari per cercar del pane.
Traditi da un mercante menzognero,
Vanno, oggetto di scherno allo straniero,
Bestie da soma, dispregiati iloti,
Carne da cimitero,
Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti.
Vanno, ignari di tutto, ove li porta
La fame, in terre ove altra gente è morta;
Come il pezzente cieco o vagabondo
Erra di porta in porta,
Essi così vanno di mondo in mondo.
Vanno coi figli come un gran tesoro
Celando in petto una moneta d’oro,
Frutto segreto d’infiniti stenti,
E le donne con loro,
Istupidite martiri piangenti.
Pur nell’angoscia di quell’ultim’ora
Il suol che li rifiuta amano ancora;
L’amano ancora il maledetto suolo
Che i figli suoi divora,
Dove sudano mille e campa un solo.
E li han nel core in quei solenni istanti
I bei clivi di allegre acque sonanti,
E le chiesette candide, e i pacati
Laghi cinti di piante,
E i villaggi tranquilli ove son nati!
E ognuno forse sprigionando un grido,
Se lo potesse, tornerebbe al lido;
Tornerebbe a morir sopra i nativi
Monti, nel triste nido
Dove piangono i suoi vecchi malvivi.
Addio, poveri vecchi! In men d’un anno
Rosi dalla miseria e dall’affanno,
Forse morrete là senza compianto,
E i figli nol sapranno,
E andrete ignudi e soli al camposanto.
Poveri vecchi, addio! Forse a quest’ora
Dai muti clivi che il tramonto indora
La man levate i figli a benedire....
Benediteli ancora:
Tutti vanno a soffrir, molti a morire.
Ecco il naviglio maestoso e lento
Salpa, Genova gira, alita il vento.
Sul vago lido si distende un velo,
E il drappello sgomento
Solleva un grido desolato al cielo.
Chi al lido che dispar tende le braccia.
Chi nell’involto suo china la faccia,
Chi versando un’amara onda dagli occhi
La sua compagna abbraccia,
Chi supplicando Iddio piega i ginocchi.
E il naviglio s’affretta, e il giorno muore,
E un suon di pianti e d’urli di dolore
Vagamente confuso al suon dell’onda
Viene a morir nel core
De la folla che guarda da la sponda.
Addio, fratelli! Addio, turba dolente!
Vi sia pietoso il cielo e il mar clemente,
V’allieti il sole il misero viaggio;
Addio, povera gente,
Datevi pace e fatevi coraggio.
Stringete il nodo dei fraterni affetti.
Riparate dal freddo i fanciulletti ,
Dividetevi i cenci, i soldi, il pane,
Sfidate uniti e stretti
L’imperversar de le sciagure umane.
E Iddio vi faccia rivarcar quei mari,
E tornare ai villaggi umili e cari,
E ritrovare ancor de le deserte
Case sui limitari
I vostri vecchi con le braccia aperte.
di Edmondo De Amicis
tratto dalla raccolta "Sull'Oceano"
* * *
Mezzogiorno
Alla vampa del sol meridïana
Chiusa è la stanza, ed io seggo, insonnito;
E sento giù per un sentier romito
La canzone morir d’una villana.
Quindi un alto silenzio, una sovrana
Pace sembra regnar nell’infinito:
Sol tratto tratto nel giardin sopito
Frulla un’ala tra i rami e s’allontana.
E dalla muta cameretta oscura,
Fantasticando, con lo sguardo fiso
Delle socchiuse imposte alla fessura,
Veggo di là dai verdi piani immensi
La piramide bianca del Monviso,
Che domina il Piemonte, e par che pensi.
tratto da Poesie (1882)
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